L'accostarsi a nuovi materiali e a nuove tecniche caratterizza fortemente l'ultimo ventennio di attività di Antonio Manzi, alla ricerca sempre di strumenti adeguati alle sue esigenze espressive.
L'approdo al graffito risale al 1989 ed è un risultato annunciato già dalla ceramica del periodo, che mostra quasi un costante ricorso all'uso dello "sgraffio", ma soprattutto un prologo importante è costituito dall'affresco che gli ha permesso di rapportarsi con opere di dimensioni monumentali e gli ha fatto comprendere le potenzialità espressive anche solo sotto l'aspetto tecnico e della materia.
Fondamentale è stato, tuttavia, l'incoraggiamento e l'insostituibile apporto offerto all'artista da Sergio Bettazzi che dal 1984 lo affiancava nella realizzazione degli affreschi e che dal 1989 accompagnerà Manzi nella nuova stagione dei graffiti.
Il procedimento originario per la realizzazione del graffito consisteva nello stendere uno strato di intonaco bianco su uno sottostante più scabro, preparato con sabbia, calce e colore nero. Sulla superficie chiara - con l'ausilio di disegni preparatori riportati su muro attraverso la tecnica dello spolvero - si procedeva ad incidere con una punta metallica in modo da far affiorare porzioni più o meno estese, in base al disegno, di intonaco sottostante di colore nero.
Il graffito ha origini alquanto antiche, ma fu particolarmente apprezzato proprio a Firenze nel Rinascimento e nel Manierismo per decorare le facciate dei palazzi signorili, basti ricordare lo straordinario esempio del Palazzo di Bianca Cappello in via Maggio, con i graffiti di Bernardino Poccetti.
Antonio Manzi ha recuperato questa forma d'arte per eseguire opere murali o su tavola, procedendo a preparare appositamente il supporto ligneo, come per gli affreschi, con gli strati di intonaco.
La velocità esecutiva e la mancanza di errori sono fondamentali per il risultato, poiché anche questa tecnica non permette di correggere ciò che è già fatto e l'asportazione delle parti di intonaco più superficiale deve essere effettuata quando questo non è ancora essiccato.
In questo graffito l'artista si abbandona alla suggestione e alle emozioni suscitate dalla celebre commedia di Shakespeare che costituisce uno dei temi più a lungo sviluppati, come dimostrano dei disegni e delle ceramiche degli anni '80 del Novecento.
Il testo letterario anche qui è un espediente per evocare fantasie oniriche proprie dell'artista, popolate dai suoi simboli, la maschera, il serpente, l'urlo ed eteree figure femminili circondate da turgide corolle di fiori tipicamente manziane, forse peonie o forse rose con steli sinuosi che si avvolgono a formare intrichi, motivi tra i più ricorrenti nell'opera dell'artista.
Come in tutti i graffiti anche qui è una specifica cifra espressiva il rapporto cromatico determinato dai colori contrastanti e la rispondenza dialettica tra pieni e vuoti che si stabilisce tra i due strati di intonaco.
Nell'ultimo decennio di attività Manzi si è dedicato soprattutto ai soggetti che hanno come tema l'amore e la figura femminile, rappresentata questa come sorgente di armonia e bellezza, come musa ispiratrice dell'attività creativa.
Sembrava pertanto oramai definitivamente lontano dalla realizzazione di opere dal contenuto fortemente drammatico, come quelle che hanno caratterizzato il primo periodo di attività e che avevano una connotazione fortemente autobiografica.
In realtà alcune opere più recenti, realizzate proprio a graffito, mostrano l'interesse e la forte partecipazione emotiva di Antonio Manzi verso realtà tragiche e purtroppo attuali.
Tra il 2006 e il 2007 vengono eseguiti graffiti su tavola di grande formato che hanno come soggetto l'olocausto o l'orrore della guerra che colpisce i più deboli, qual è il soggetto di questo graffito Morte di un bambino sotto la guerra.
Manzi affronta questa terribile realtà attraverso la forma che assume il suo pensiero di fronte alla guerra, una guerra che non dà scampo a nessuno, che entra nelle case e distrugge l'intimità sacrale delle famiglie.
Non è un episodio specifico quello che narra, ancora una volta si volge ad indagare il dolore umano originato dalla mostruosità del male che annienta la vita innocente e piena di aspettative come quella di un bimbo.
Nel vortice di dolci volti femminili e maschere tragiche che urlano la disperazione, Manzi crea compositivamente una pausa, determinata dal corpo trafitto del bambino, morbido e allungato, che richiama nell'iconografia i numerosi Gesù Bambino incisi nelle puntesecche o dipinti ad affresco nelle Adorazioni Magi o nelle Natività.
Delle braccia femminili si allungano a formare una sorta di culla ovale che accoglie il bambino morto.
Le figure, ad eccezione del bimbo, sono descritte per frammenti bidimensionali che esaltano il senso di desolazione e di dolore, appena attenuati dalla presenza dei fiori. Anche la cromia chiara, ma fredda, accentua la drammaticità della composizione.
Gabriella Mancini - tratto dal catalogo Il Museo Manzi